Un’intervista di Evi Mibelli a Daniela Pinotti.
“Sono un animo nomade e sempre alla ricerca del cambiamento”.
Un incontro speciale, quello con Daniela Pinotti. Una mente scattante, aperta e uno sguardo che s’illumina quando racconta la sua passione per il progetto, per la ricerca, per la sperimentazione. La sua inquietudine sembra nascere dal timore di avere più idee del tempo di cui dispone e questo la rende concreta, diretta, precisa. La sua vita – e non solo la sua arte tessile – è un inno al movimento, alla capacità di trovare connessioni tra mondi e pensieri differenti.
La sua coerenza si misura proprio nella raffinata capacità di intercettare punti d’incontro inaspettati e trasformarli in occasioni per sperimentare linguaggi espressivi inediti. Che poi è il modo di dare unicità e identità al suo lavoro. Daniela Pinotti è una textile designer, tra le più interessanti del panorama italiano degli ultimi anni.
Carnet de Voyage, installazione per Open House Exhibit, Roma 2023.

Il tessuto è il media che ha scelto per esprimere la sua creatività. Lo vive come un ‘viaggio’, una sorta di mappa che racconta geografie, pensieri e culture. E, in effetti, la sua formazione ne è la riprova tangibile.
“Si, al momento il tessuto è la forma espressiva che mi è più congeniale, lasciandomi grande libertà creativa. Non so se sarà sempre così. Sono aperta a stimoli nuovi che possono modificare lo status del mio lavoro spingendomi a fare anche esperienze diverse. Ho iniziato i mei studi interessandomi alla moda. E infatti mi sono diplomata allo IED di Roma, in fashion design. Già dalle prime esperienze di lavoro, però, ho maturato una spiccata predilezione per lo sviluppo della rappresentazione grafica di stampa, piuttosto che per il design di modelli. In pratica mi sono formata per fare un certo tipo di attività, ritrovandomi a scegliere una strada diversa. La mia carriera è un esempio di cambi e scoperte continue.
Ho lavorato per diversi anni come dipendente, iniziando in un atelier di moda a Roma, per poi spostarmi a Treviso per lavorare per Benetton. Stante la mia difficoltà a stare in un contesto fisso decido di lasciare l’Italia e trasferirmi in Svezia dove ho avuto l’opportunità di vivere in una dimensione completamente diversa, davvero formativa. Infine, sono rientrata in Italia mantenendo comunque un forte legame con Stoccolma.
Tutto questo per dire che la conoscenza del tessuto è avvenuta in modo graduale passando dalla stampa – che resta uno delle modalità espressive che preferisco – per cimentarmi nel tessuto jacquard e nella conoscenza della tessitura vera e propria. Sul tessuto e con il tessuto si possono fare talmente tante cose che, davvero, è difficile vederne i limiti”.
Stillmoving, stampa digitale su voile. Installazione tessile per l’esposizione collettiva Still Moving, curata da Label 201. Design District Portuense 201, Roma 2019. Photo © Serena Eller for Eller Studio

Nel 2016, al rientro in Italia, fonda il suo studio di textile design e di consulenza nella moda. Prendono così vita collaborazioni con brand importanti come H&M, Benetton, Napapijri, GANT, e con aziende tessili quali S.E.T. e Gruppo Miroglio.
“Oggi lavoro su più progetti contemporaneamente perché la mia energia creativa si esprime meglio se è impegnata su più tavoli. Dedicarmi a un solo progetto alla volta, mi spegne. È la ragione per cui dal 2016 ho cominciato a lavorare come freelance sviluppando il lavoro tra Italia e Svezia, in un nomadismo creativo molto stimolante. Contestualmente ho cominciato ad autoprodurre le mie idee e collezioni: foulard, carte da parati, tessuti collaborando con altri studi e professionisti. Tutto questo mi ha portato, da quest’anno, a pensarmi in una chiave più articolata. Una sorta di creatività olistica, a 360°. In un certo senso ho il desiderio di uscire dal tessile tradizionalmente inteso per sondare altri campi creativi che possano – in definitiva – ricondurmi nuovamente al tessile però con nuove chiavi interpretative, lavorando con materiali diversi che sono estranei al mondo che conosco”.
Collezione di foulard in seta ODE, ispirata ai colori della natura nordica. Edizione limitata. Photo © Cristina Crippa

Il rapporto con il design tessile nordico resta un punto fermo dell’espressività di Daniela Pinotti ed è facile trovarne i richiami.
“La Svezia ha avuto una grande influenza sul mio lavoro e ce l’ha tuttora. In Svezia il tema della stampa del tessuto è molto presente tra i designer. Da noi in Italia è percepita in modo diverso, siamo più legati al tridimensionale – o almeno questa è la mia percezione. I designer nordici sono più concettuali, sono maggiormente interessati all’idea che sta dietro le cose. Nel mio lavoro cerco di mediare le due culture, avvalendomi del contrasto e delle differenze come fonte creativa. Noi in Italia siamo più vincolati per cultura al bello e al ben fatto e meno inclini a sperimentare in libertà. Ho fatto mio il loro modo di creare e di sovvertire le regole.
Nella mia prima collezione di oggetti autoprodotti – foulard in seta in edizione limitata realizzati con una azienda serica di Como – l’ispirazione derivava dalla natura e dai colori nordici cui sono molto legata, espressa attraverso un linguaggio astratto. Il pattern ha incontrato la bellezza e la particolarità della seta, un tessuto fortemente legato alla nostra storia e al mondo del lusso. Il risultato è stato sorprendente. Questo gioco di rimandi è ricorrente nel mio lavoro”.
Collezione Quattro. Il tessuto inteso come struttura e identità, come movimento e fluidità. La collezione si compone di quattro elementi d’arredo. Photo © Tania Alineri


Il tessuto offre non solo bidimensionalità – che è propria della stampa – ma anche quella più scultorea e tridimensionale derivante dalla tessitura e dall’intreccio dei filati impiegati. È un aspetto di ulteriore arricchimento e opportunità di espressione.
“La tridimensionalità l’ho ricercata non solo attraverso l’intreccio dei filati, ma soprattutto nell’uso del tessuto come elemento ‘costruttivo’. È evidente nella collezione Quattro, presentata recentemente a Napoli. Le semplici strutture in acciaio degli arredi, non hanno alcuna funzionalità, private del tessuto. È quest’ultimo che conferisce identità e, soprattutto funzione portante all’arredo. Ho pensato al tessuto come a una materia che prende forma nello spazio, ed è particolare come progettazione, perché il tessuto non assume questo tipo di ruolo, di norma.
C’è stata una ricerca molto approfondita sia a livello di fornitori, sia per le necessarie proprietà tecniche del tessuto stesso. Un progetto stratificato dove, in alcune fasi, è stato dipinto appositamente a mano per poi essere digitalizzato per la stampa. Questo per conferire equilibrio e coerenza estetica a tutta la collezione”.
Il tessuto, quindi, diventa elemento che può definire – per estensione – anche uno spazio, un’architettura. È la modalità d’uso che ne sancisce la funzione. Un concetto che dilata la sua tradizionale collocazione di accessorio trasformandolo in qualcosa di strutturale.
“Un tappeto è tessuto, una tenda è tessuto, un arazzo è tessuto. Secondo come lo pensi e lo collochi va a definire uno spazio. Una tenda, per esempio, non solo scherma la luce, la modula e la modifica al punto da alterare i chiaroscuri di uno spazio. Il tessuto può vivere autonomamente. Un progetto che sto facendo in studio riguarda l’impiego di tele che fungono da separatori di spazi, sostituendosi ai muri. Con il vantaggio della leggerezza e della possibilità di cambiare posizione, all’occorrenza. Ma ha anche un ruolo decorativo. Mi piace destrutturare, semplificare, arrivare a una sintesi. Preferisco pensare al tessuto come elemento strutturale di un oggetto o di uno spazio, e meno come puro rivestimento”.
Lo spazio laboratorio di Daniela Pinotti, Roma. Photo © Lara Cetti

Centrale nella visione progettuale di Daniela Pinotti il tema dello scambio. Al punto da essere il fulcro su cui sta costruendo il suo hub progettuale, un luogo che sia al contempo laboratorio, workshop, showroom, galleria d’arte e spazio culturale.
“Il tema dello scambio, delle incursioni in territori non conosciuti, lo trovo fondamentale per il mio lavoro e credo si possano intrecciare collaborazioni entusiasmanti con altri mondi e altre creatività. Tutto questo mi ha portato a trovare uno spazio più grande – che sto progettando e che – nelle mie intenzioni – deve diventare una sorta crocevia di idee, proposte, progetti. Ovviamente devono avere una loro coerenza con il mio modo di sentire la progettualità, ma in ogni caso espressioni libere. Oggetti di arredamento, tessuti, tendaggi, lampade… Uno specchio di come io sono creativamente. Ma è anche luogo di accoglienza per idee e progetti provenienti da altre voci.
Una nota importante: quasi tutti gli oggetti avranno le ruote. È la rappresentazione plastica della mia natura: dopo anni passati a viaggiare senza radicarmi ho sentito l’esigenza di ‘fermarmi’. Senza però tradire il mio nomadismo, il mio restare in equilibrio, nell’instabilità che mi serve da stimolo perché senza non respiro.
Questo spazio lo vedo ‘in progress’ sempre in movimento da ora e negli anni a venire. Qui c’è il mio laboratorio, la mia area di produzione (i tappeti, gli arazzi, le tende) ma anche spazio per allestimenti, eventi e workshop, corsi formativi. Lo vedo come un hub di arrivo e partenza di idee, persone, e progetti. Anche non legate al mio lavoro ma che condividono la mia stessa necessità di sperimentare e di mettersi in gioco. Un punto d’incontro tra progettisti, clienti e aziende. Una fabbrica di idee, ma anche di concretezza”.
Un approccio confermato dalla collaborazione con STUDIOTAMAT. Un progetto d’installazione tessile, nato libero dal vincolo di arrivare sul ‘mercato’ con un prodotto finito seguendo logiche di posizionamento, di processi di produzione, di marketing.
“L’obiettivo era studiare il processo, il come arrivare a un’idea creativa concreta, in autoproduzione. È un tema che impone altre logiche e altri percorsi di sviluppo e di visibilità. Ne è nato un tessuto che ho disegnato per STUDIOTAMAT e che l’azienda l’OPIFICIO ha prodotto, e successivamente, acquisito in collezione. Ha girato in diversi eventi e manifestazioni a cominciare dalla Design week di Milano, in occasione del Salone del Mobile, per poi toccare altre tappe in giro per l’Italia. Quello che è significativo di questa esperienza è che un tessuto – e in generale il progetto – acquisisce visibilità e identità attraverso gli eventi che vive, le forme che prende, i luoghi che occupa. È come viene visto, percepito e ‘allestito’ che lo trasforma in prodotto”.
Il tema dell’autoproduzione come opportunità e alternativa alle logiche vincolanti della produzione industriale appare essere la strada per assicurarsi la libertà di sperimentare. La domanda che emerge è se sia sostenibile.
“Non esiste una risposta. È indispensabile fare i conti con le proprie possibilità e le occasioni che si presentano. Diciamo che la parte di sostegno alla mia attività proviene, grazie al mio passato di progettista alle dipendenze di aziende del settore moda – dalle consulenze che continuo a prestare e dalle quali, peraltro, attingo comunque spunti e idee per le mie produzioni. L’autoproduzione in effetti è un ambito piuttosto ostico e difficile in termini economici. È un mercato di nicchia ed è difficile creare una rete distributiva.
Dal mio punto di vista, in Italia, non c’è un adeguato sostegno e promozione per attività come il design. Banalmente le difficoltà iniziano quando vuoi prendere in affitto un laboratorio. Non esistono agevolazioni. Oppure se intendi produrre un tuo progetto le aziende pongono, giustamente, dei minimi di produzione che però si rivelano insostenibili per il creativo. Non sono interessate alla ricerca, al progetto a meno che non sia di designer di fama. Vale la firma. Quanto costa creare una rete del design indipendente? Non c’è una risposta univoca. La mia risposta la sto cercando con questo spazio laboratorio in cui lavoro e su cui ho investito, dove intendo far confluire più attività, scambi ed esperienze capaci di essere ‘rete”.
OFFTAMAT, format espositivo nel cuore del Design District Prati, a Roma. Il tessuto realizzato con la tecnica a lampasso è in filato naturale, con particolare attenzione alla sostenibilità e all’alta qualità artigianale del manufatto. La collezione High Ride è entrata in produzione con l’azienda l’Opificio, nel 2025. Ideale per molteplici applicazioni: dal rivestimento ai tendaggi. In collaborazione con Studio Tamat. Photo © Serena Eller, Eller Studio

Progettare sostenibile, riscoprire tradizioni.
“ Non c’è un solo modo di essere sostenibili. Creo sempre un link con l’immaginario naturale nel mio lavoro. E quando lavori sull’autoproduzione questo concetto è ancora più presente e fa leva non solo sul principio della riciclabilità, ma anche sulla capacità, per esempio, di ricorrere a materiali del territorio. È un concetto ampio, dipende dal progetto. Sempre pensando al viaggio come esperienza di ricerca, l’incontro con artigiani e produzioni locali è per me foriera di emozioni e scoperte.
Poco tempo fa sono stata alle Seterie di San Lucio (Caserta), una manifattura spettacolare di altissima qualità. Il problema di queste realtà è che stanno perdendo mercato. Mantengono solo pochi committenti storici e non hanno la forza di rinnovarsi. E, in questo, non sono sostenute neppure da politiche concrete di valorizzazione e rilancio.
C’è poi il problema del ricambio generazionale che condanna all’oblio. Un vero peccato. Come designer credo sia importante conoscere queste realtà, acquisirne le tecniche per poi accompagnarle verso interpretazioni progettuali più attuali. È per questo che ho l’idea di portare dei workshop all’interno del mio spazio, proprio nell’ottica di conoscere e sperimentare patrimoni artigianali che rischiano di andare perduti”.
Trasformazione, fluidità, nomadismo, identità. Daniela Pinotti è movimento. Non è mai dove la vedi. È già altrove.
In copertina, Daniela Pinotti, photo © Lara Cetti
Layers, collezione carta da parati per STUDIOTAMAT La collezione nasce per gli interni della pizzeria Ardecore, inaugurata nel 2024 a Roma, photo © Daniele Criscenzo






















