Architetto e designer lombarda, Ilaria Marelli nel suo studio fondato nel 2004 si dedica al progetto a tutto tondo, spaziando dagli interni al design di pezzi unici e di prodotti in serie per grandi aziende italiane. L’abbiamo intervistata per scoprire il suo affascinante mondo di progettista.
Raccontaci di te. Chi è Ilaria Marelli e come si è avvicinata al design?
Sono una ragazza di provincia cresciuta a Eupilio, piccolo paese in provincia di Como. Dopo un percorso di studi in architettura “per colpa” sia di Ezio Manzini – mio relatore di tesi che mi ha avvicinato ai temi del design strategico e della sostenibilità – sia di Giulio Capellini – mio mentore nella prima esperienza in azienda, da cui ho assorbito la capacità di gestire il lavoro di art direction – mi sono ritrovata al 100% immersa nel mondo del design, pur con due tagli così diversi tra loro. Una doppia esperienza che mi ha appassionata e convinta a intraprendere questa strada spesso difficile ma sempre entusiasmante.
Serie Cook, self production, ph. Paolo Luppino
Cappellini, Zanotta, Fiam, Nemo, sono diverse le grandi aziende italiane con cui hai collaborato. Cosa significa per te il Made in Italy?
Il made in Italy è una sorta di cultura diffusa nelle nostre aziende fatta di attenzione al dettaglio, di passione e sperimentazione, di capacità di far vivere delle emozioni al cliente. È qualcosa di cui quasi non ci accorgiamo perché “ci siamo dentro” ma che esce chiaramente quando lavori all’estero perché ti rendi conto delle differenze di approccio al progetto: più marketing e business oriented nella cultura americana e più metodologica nella cultura giapponese, per fare due esempi.
Letto Kal, Olivieri, 2019
Nel tuo portfolio si notano molte lampade. Quanto ti appassiona il mondo della luce? Si dice che la lampada sia l’oggetto più difficile da progettare, è vero?
Da un certo punto di vista per me la luce è l’oggetto più facile da pensare: questa combinazione di materiale e immateriale, di prodotto e emozione, di libertà di creazione data anche dalle nuove sorgenti luminose mi viene molto naturale.
Al contrario faccio più fatica a lavorare su un progetto cucina che è già molto sistematizzato nelle modulistiche e nelle strutture, dove per innovare si interviene sul materiale, su un sistema di giunzione ma difficilmente su un concetto di più ampio respiro.
Belle Dejour, Foscarini, 2019
A sinistra, Ara floor, Nemo 2014. A destra, Aura, Slide, 2020
Da cosa ti lasci ispirare quando inizi un nuovo progetto?
Quando lavoro su un nuovo brief faccio un lavoro di ricerca preliminare anche fuori dal campo stretto del design, guardando ad ambiti come quello dell’arte o della ricerca sociologica. E poi parlo con le persone per capire cosa si aspettano da quel tipo di prodotto.
Alla fine è come se avvenisse automaticamente una sorta di coagulazione di una serie di informazioni già precedentemente nella mia testa, ma non attivate perché non ero di fronte ad un tema specifico di progetto, che si mixano a quelle ricavate dalla ricerca portandomi a elaborare delle proposte specifiche.
Pitti magic box, 2019
Ti occupi di prodotto, art direction, interni e visual: come fai a conciliare i diversi ambiti e a farli comunicare fra loro? E in quale preferisci lavorare?
Alla base ritengo di avere un approccio strategico al progetto, per cui l’art direction è l’ambito in cui mi sento di mettere a frutto le mie capacità e competenze al meglio, e di dare un contributo sostanziale all’azienda di cui sono interlocutrice. Ciò non toglie che anche singoli progetti di allestimenti, di showroom o specifici progetti di prodotto o comunicazione riescono a darmi grandi soddisfazioni.
Mi piace molto sperimentare e imparare da ogni progetto e dal confronto con ogni cliente o collaboratore. Quando questo meccanismo si attiva in maniera positiva e ne usciamo tutti con una crescita personale mi sento appagata, indipendentemente dall’ambito in cui il progetto è stato declinato.
Lavorare in diversi ambiti della creatività sostiene una crescita armoniosa delle competenze progettuali dello studio: la mia esperienza come interior designer mi fa rendere conto di nuove esigenze di progetto, ma viceversa la mia capacità di disegnare prodotti mi porta a studiare soluzioni ad hoc negli interni e non solo a comporre quanto esiste nel mercato.
Showroom Tivoliaudio, Boston
Catalogo Gaber, 2020
La situazione sanitaria odierna ci ha portato a restare molto tempo a casa. Hai approfittato di questo periodo per dedicarti a nuovi progetti? Ci puoi anticipare qualcosa?
Devo dire che con un bambino di 6 anni il “molto tempo a casa” almeno nella prima fase di lockdown è stato anche molto denso visto che i ruoli di designer, mamma, massaia non avevano più orari e luoghi definiti. Una parte importante della mia attività è legata alle fiere di moda e design tutte cancellate in questi mesi ma nonostante la situazione complessa sono rimasta quasi sorpresa nel ricevere nei mesi estivi diversi nuovi incarichi relativi a progetti di showroom, di comunicazione, di prodotto e nuove art direction.
Questo dimostra che il sistema design italiano è attivo e che, nel necessario cambio di rotta dato dal periodo, una figura con competenze trasversali come la mia risulta certo più interessante per gestire questa fase di cambiamento.
Abbiamo subìto tutti un’accelerazione digitale e siamo ormai consapevoli che ci sono modalità diverse di abitare, lavorare, comprare e quindi si possono pensare a nuovi scenari in grado di integrare il meglio del digitale e del mondo fisico per creare un’esperienza soddisfacente, emozionante e anche più sostenibile.
È lo scenario che ho chiamato: “nuovi format che riscrivano le regole del gioco mettendo l’esperienza dell’utente al centro”.
Phigital moda, 2020
Nell’immagine di copertina, ritratto di Ilaria Marelli, ph Andrea Butti