Un’intervista di Evi Mibelli a Davide Diliberto.
La percezione è quella di trovarsi di fronte a una persona che non ama essere al centro dell’attenzione. Davide Diliberto delega al progetto il compito di parlare della sua visione del design. Che è ricercato, misurato, attento a ogni dettaglio e al dialogo che intrattiene con l’ambiente circostante.
Come progettista industriale, Davide Diliberto è – pregio raro in epoca di protagonismo – convinto sostenitore che il ruolo del designer debba essere di attento interprete delle esigenze delle aziende con cui collabora, e lavorare per alzarne il valore e l’immagine da parte del pubblico e del mercato. Una laurea in Disegno Industriale con una tesi sul design dell’auto, conseguita al Politecnico di Milano, e un inizio carriera davvero inaspettato alla Zagato, azienda italiana di carrozzerie, fondata nel 1919, che annovera storiche collaborazioni con Alfa Romeo, Maserati, Lancia, Aston Martin.
“È vero. Da neolaureato mi presentai al mio primo colloquio di lavoro proprio alla Zagato, con il sogno nel cassetto di disegnare per l’automotive. In realtà l’incontro riguardava la ricerca di progettisti per una nuova divisione interna, che si sarebbe occupata di prodotti consumer elettronics. Fui assunto subito. Tra i primi clienti Telecom Italia e Siemens. Fresco di laurea mi sono ritrovato in compagnia di un giovane collega e del mio capo ufficio ad affrontare due colossi della telefonia cui dovevamo portare proposte. Un battesimo di fuoco”.
A sinistra, Siemens Gigaset C450, uno dei modelli disegnati durante gli anni in Zagato, per diversi anni è stato un best seller della gamma Gigaset; a destra, Rubinetto Acquaplano, 2018.
Acquaplano, 2018: collezione di rubinetti dal design levigato, oggi distribuito a marchio Fortis col nome Vitrina.
“È stata un’esperienza formativa di inestimabile valore. Ho avuto l’opportunità di lavorare secondo i principi del design management, passando da ogni singola fase della creazione di un prodotto: dal briefing, all’elaborazione delle proposte, alla selezione dell’idea, alla sua progettazione esecutiva e, contestualmente, la realizzazione secondo precisi standard tecnologici, rispondendo alle stringenti necessità del marketing e a quelle di una comunicazione coerente con il mercato di destinazione. Insomma, un approccio a tuttotondo, dove nulla, neppure un dettaglio era – ed è – lasciato al caso.
Ricordo anche quello spirito tipicamente italiano che ci ha aiutato a risolvere problematiche complesse, che non sono state poche. Non siamo mai scontati, sappiamo dare una versione degli oggetti sempre creativa pur garantendo le massime prestazioni tecniche e tecnologiche. Magari il percorso seguito non è stato sempre lineare – critica che ci veniva rivolta da chi, vedi Siemens, ha una cultura progettuale più rigorosa e meno incline a quell’umanesimo di cui siamo ‘portatori sani’ dal Rinascimento – ma i risultati alla fine sono stati eccellenti soddisfacendo tutti”.
Cappa Hotpoint-Ariston, 2012.
Nel 2008 Davide Diliberto aprirà uno studio insieme a Manuela Bucci. Tra i clienti più importanti di quegli anni, il Gruppo Indesit. Dal 2015 ha avviato il suo studio personale, occupandosi di product design, branding, trend analysis, fotografia e comunicazione in una visione coordinata del design con il fine fondamentale di valorizzare e sostenere il prodotto da vendere e le aziende connesse. Osservando, oggi, il suo ricco portfolio di lavori corredato da importanti riconoscimenti internazionali per il design – per Ento (maniglie), Brem, Mital, Paini – viene spontaneo collegarsi alla famosa frase “Less but better” di Dieter Rams, lo storico direttore creativo della Braun, fino al 1995.
“C’è una certa affinità, in effetti. Il designer non lavora per sé ma per le aziende. Queste hanno esigenze concrete, hanno bisogno di prodotti competitivi, che si differenzino da quelli già presenti. Ci troviamo di fronte alla necessità di coniugare due mondi in contrasto tra loro: da una parte la volontà di produrre oggetti duraturi e rappresentativi, e dall’altra l’esigenza di guardare avanti e farsi interpreti del futuro prossimo.
Non è una sfida semplice. È l’arte di saper trovare il punto di equilibrio tra due visioni, in un mondo che vive sull’urgenza perenne che non lascia neppure il tempo di sedimentare idee e disegnare prospettive possibili. Concretizzando: progettualmente un prodotto può trasformarsi in un oggetto d’eccellenza ponendo attenzione soprattutto sui dettagli, su quegli elementi che potrebbero sembrare secondari ma che, invece, diventano la chiave armonica del tutto. Il tema del restyling è qualcosa, per esempio, che mi interessa molto. Costringe a guardare l’oggetto nella sua intrinseca identità per poi accompagnarlo verso una evoluzione coerente che lo renda più contemporaneo senza, tuttavia tradirne l’origine”.
Veletta, Brem, 2019, premiato nel 2022 con l’ePDA “Top Design”.
Ascoltando Davide Diliberto emerge, in effetti, un certo allineamento con il famoso decalogo che campeggiava nel centro design della Apple a Cupertino, dove Jonathan Ive dirigeva il team creativo dal quale sono usciti gli iconici prodotti con la mela. Il decalogo è quello pensato e scritto da Dieter Rams, poc’anzi citato, il deus ex machina della Braun e tra i più grandi designer che collaborarono con la Scuola di Ulm, sempre poco citata ma fondamentale per l’evoluzione del design post Bauhaus.
Leggendo i dieci punti scopriamo che un buon design deve essere innovativo, consegnare al mercato un prodotto utile, avere una sua estetica, aiutare a capire il prodotto e la sua funzione, essere onesto e duraturo, curato in ogni dettaglio, attento all’ambiente, non essere invasivo ed avere un design quasi invisibile.
“È un decalogo che in generale rispetta la mia visione progettuale, anche se con i necessari distinguo e una certa flessibilità nell’applicarlo. Il design deve essere innovativo? Sì, in linea di massima, sempre sia possibile. Dipende dalla tipologia di prodotto, dal settore d’intervento e da diverse variabili che entrano in gioco. Con una maniglia, per esempio, non è che ci siano margini d’innovazione particolari, se non nelle tecnologie di produzione o nei materiali che decidi di impiegare.
Puoi migliorarne l’impugnatura, la linea, la meccanica, ma resta sostanzialmente una maniglia. Sul tema dell’utile la mia adesione è totale, così come l’importanza del ‘come e cosa’ un prodotto comunica a chi lo osserva. L’estetica è un aspetto tutt’altro che secondario, è la ragione per cui qualcuno sceglie istintivamente un prodotto a dispetto di tutti i discorsi sull’utilità e la funzionalità. Una cosa ci piace perché attrae la nostra attenzione prima di qualsiasi valutazione razionale. È chiaro che poi, in seconda battuta, ci si sofferma sulla sua prestazione e sulla corrispondenza a certe esigenze da risolvere.”
Maniglia Robot, per Ento: progetto del 2019, premiato nel 2020 con il Silver ’A’ Design Award.
“Il tema del dettaglio mi è particolarmente caro come ho già accennato prima. Soprattutto per chi, come me, non desidera imporsi in un ambiente ma cerca di dialogarci arrivando a stabilire armonia e coerenza con tutto il contesto. Come dice Rams ‘un buon design non è mai invasivo’. E qui inevitabilmente si fa spazio anche il concetto di onestà: la ricerca estetica è legittima e necessaria, a patto non sia solo un’operazione di lifting. Deve sempre aggiungere qualcosa all’oggetto, alla sua forma, alla percezione che ne deriva osservandolo o aggiungere qualcosa di utile al contesto in cui si inserisce.
Deve avere un fine concreto. Se l’armonizzazione dei diversi fattori si compie allora il prodotto può ambire anche a essere duraturo, entrando in quella bolla senza tempo che lo rende unico. La durabilità poi, ovviamente, è legata anche alla sostenibilità e quindi, oggi ancor più che in passato, è fondamentale progettare avendo ben chiari concetti come riciclabilità e riparabilità”.
Chem, Brem, 2022, sistema di radiatori a tubo che ricorda gli impianti industriali. Premiato nel 2024 con il French Design Awards.
Eppure a una analisi più attenta pare esistere una certa conflittualità tra il concetto di duraturo e di sostenibile, di cui spesso si parla, e la bulimia produttiva in cui siamo immersi quotidianamente.
“Si, è vera questa riflessione. Ma va cambiata la visione e si tratta di un cambiamento strutturale che, al momento, configge con un sistema la cui bulimia è funzionale alla sopravvivenza del sistema stesso. Non ho idea di quali possano essere le alternative. Sicuramente la riparabilità, la rigenerazione dei prodotti è una strada che andrebbe ripercorsa.
Non credo che fare meno prodotti possa comportare un significativo calo del mercato. È sufficiente osservare l’emersione del mercato dell’usato che è, di fatto, una seconda economia. Alla fine un prodotto che dura è un’ottima pubblicità per chi lo produce. Viviamo invece all’interno di dinamiche che hanno declassato la qualità in molti settori”.
A sinistra, Mital 3500, 2023: famiglia di pomoli e manigliette per mobile verticali, disegnati come una semplicissima linea; premiato nel 2023 con lo IADA (International Architecture & Design Awards), Bronze Winner; a destra, Mital PI30, 2024: piedini per mobili e imbottiti, disegnati per sembrare sottili lame di metallo.
Cosa significa essere designer oggi?
“Posso dire che sta diventando sempre più difficile fare questo lavoro. Per le aziende si stanno complicando gli scenari tra normative, regole e competizione agguerrita, per i designer la sfida è riuscire a creare un ambiente di lavoro dove i diversi attori – fornitori, fotografi copy, etc. – siano sintonizzati con il tuo lavoro e con lo spirito che anima le aziende con cui collabori. Anche in questo caso la capacità sta nel saper vedere l’intero processo, assicurando a ogni elemento del gruppo, il giusto ruolo e la valorizzazione del loro contributo. Non è scontato”.
Maniglia Stelo, per Ento. News 2024, premiata con l’Archiproducts Design Awards e l’ePDA (European Product Design Award). La soluzione più particolare è il sistema di fissaggio invisibile e “sospeso” della barra zigrinata al collo.
Passando agli scenari globali la grande sfida di questo secolo, al netto di Dieter Rams e degli altri grandi maestri del secolo scorso, è l’immaterialità e la sostituzione delle azioni fisiche – dove l’oggetto è, per il momento, un indispensabile tramite – con azioni generate anche solo dall’invio di dati o comandi attraverso device. Come evolve il design? Come si coltiva il legame con le emozioni, con il contatto fisico che rappresenta la base di qualsiasi relazione sia essa tra persone, cose, ambiente e sensi?
“È una riflessione interessante e tocca un tema molto caldo. Ci troviamo in una fase di passaggio dell’epoca touch. Intendo dire che si sta tornando nuovamente a lavorare sulla forma, sugli oggetti e sulla fisicità del contatto. Un esempio è il mondo degli smartwatch. È ovvio che la comodità del digitale resta, ma questo mondo di immaterialità sta mostrando il fianco: l’indiscutibile vantaggio di potersi vedere, per esempio in una video call a distanza di centinaia di chilometri, non sostituisce il piacere di parlare dal vivo davanti a una tazzina di caffè.
Teniamo anche conto che si combatte quotidianamente con password, connessioni, configurazioni, sistemi operativi che non dialogano. Non è facile come sembra e come dovrebbe, invece, essere. Paradossalmente invece di contribuire a facilitarci la vita, è fonte di stress. Siamo fatti di mente e di sangue che scorre in un corpo fisico e viviamo una realtà che aumenta fuori misura la pressione sulle nostre capacità mentali di elaborazione. L’immaterialità è un idillio che in realtà si scontra con la quotidianità.
Lo stesso vale per l’Intelligenza artificiale che va vista solo ed esclusivamente come strumento, come protesi che ti consente di accelerare dei processi decisionali. Ma certo non può sostituire la creatività umana. È la discriminante che da valore. Per le aziende sarà una questione di scelta: dalla intelligenza artificiale non nasce design, dalla creatività umana sì”.
Guest, 2024, Brem: famiglia di scaldasalviette elettrici, qui in versione freestanding plug in. Sostituisce scaldasalviette e tradizionale porta asciugamani per salvare spazio nel bagno.
In copertina, il designer Davide Diliberto.