Una serie di portarotoli per la carta-igienica in versione ‘collectible design’. Così Matteo Pellegrino decide di salutare ‘un anno difficile’ come il 2020: con un oggetto leggero che vuole rappresentare il senso di liberazione che ha accompagnato la transizione nel nuovo anno e sdrammatizzare con un po’ di sana ironia le difficoltà affrontate. E lo fa con un’estetica morbida, colorata ed espressiva in netta contrapposizione con l’immagine convenzionale di arredo bagno.
Farewell 2020. Due pezzi della serie limitata che saluta con ironia l’anno passato
Il portarotoli è l’ultimo arrivato sul suo e-commerce, una piccola vetrina della sua produzione, dove i confini tra artigianale e industriale sfumano in oggetti che sfidano apertamente gli stereotipi da scuola di design.
Le sue creazioni nascono spesso dalla sperimentazione con materiali e tecniche di produzione e si aprono a contaminazioni col mondo dell’arte e della moda. Sulla scia del maestro Gaetano Pesce, Matteo Pellegrino sviluppa una predilezione per le forme organiche, che si traduce in un ampio uso di resina, silicone, plastica.
E in un impegno a svelare le qualità di materiali meno ‘nobili’ come la schiuma di poliuretano. L’ispirazione invece arriva da esperienze di vita personali ma anche da riflessioni sui problemi della società contemporanea.
‘Vanity Tear’ l’ironica rivisitazione di ‘ vanity fair’ di Poltrona Frau, stereotipo della poltrona di design in pelle
Non si può non citare ‘vanity tear’, una seduta che sbeffeggia la classica poltrona in pelle rimpiazzando la vera pelle con una ‘pelle’ in pvc di coccodrillo gonfiabile; un progetto che ha riscosso molto successo sui social e che incarna appieno un approccio progettuale che accanto alla funzionalità accoglie e valorizza anche il significato simbolico e artistico dell’oggetto.
Matteo Pellegrino
Gaetano Pesce è stato un riferimento molto importante nel tuo sviluppo professionale come designer. Ce ne parli?
Quando ero al liceo mi sono imbattuto in uno dei suoi vasi. Il primo impatto è stato orrore, ma poi da lì è diventato un amore crescente perché mi dava la sensazione che con il design si potesse fare qualsiasi cosa. Il design di Pesce non è un design ‘classico’ e non parla solo di funzionalità: i suoi oggetti sono densi di significati sociali e politici e di componenti tecniche raffinate.
Mi ha influenzato moltissimo da un punto di vista professionale: è stato grazie a lui che ho deciso di fare il designer. Alla fine ho avuto anche la possibilità di lavorare direttamente con lui: è stata un’esperienza meravigliosa e totalizzante.
Due pezzi della serie Amphorae “@”, una rivisitazione artistica delle anfore greche e romane realizzata per Campdesign Gallery (Milano, 2017)
Quali elementi del suo approccio hai fatto tuoi?
Da Pesce ho ereditato l’idea del design come una disciplina libera e trasversale (lui la definirebbe ‘multidisciplinare’). Mi piace poter spaziare e applicare il design a molti ambiti diversi. Anche la storia del design ci insegna che i migliori sono stati figure interdisciplinari. Al giorno d’oggi lo scambio tra i diversi settori è sotto gli occhi di tutti: realizzare un oggetto di design non è solo sedersi al pc e disegnare ma anche curare aspetti come la comunicazione e la percezione del prodotto al di fuori dello studio.
L’oggetto come scultura: in questo caso si tratta di un vaso che si può ‘riempire’ con un secondo elemento plastico quando non viene utilizzato per i fiori. Il sistema di incastro è costituito da un calco della mano del deisgner
Ho anche ripreso l’idea di concepire gli oggetti come delle sculture. So che è un concetto che fa storcere il naso a molti designer ‘puri’, ma credo che sia una visione vecchia: se guardiamo per esempio al successo commerciale delle Monkey Lamps di Seletti è chiaro che molte persone si sentono rappresentate da questi ibridi tra scultura e oggetto d’uso.
Render di ‘Waste Chair’, un prototipo al momento in fase di sperimentazione
Qual è la tua personale concezione di design?
In realtà non so ancora cosa sia fare design: le fondamenta delle mie idee si sono sradicate negli ultimi due anni e adesso sono ancora impegnato a riscoprirlo. Per me è stato molto interessante osservare le nuove prospettive aperte dalla pandemia.
Per tanti anni la creazione di nuovi prodotti è stata dettata da esigenze di mercato fittizie, dall’idea di dover ‘esserci’ a tutti i costi ad eventi come il salone del mobile. Anche le persone hanno cambiato prospettiva e hanno iniziato a concepire lo spazio in modo nuovo: per esempio chiedendosi ad esempio cosa se ne facessero di certi pezzi di design costosissimi che avevano in casa.
Credo che la pandemia sia un’opportunità eccezionale per imparare a pensare in maniera trasversale e a capire davvero le potenzialità del design; per imparare a intenderlo non più come un obbiettivo da raggiungere ma piuttosto come uno strumento in grado di valicare confini e aprire le porte a idee inesplorate.
Ispirata agli oggetti abbandonati per le strade di New York, la Bushwick Chair rappresenta un’originale fusione tra street art e ambiente domestico
Come affronti invece il design per la casa?
Da ex nomade ho vissuto a New York, dove ho incontrato un forte disaffezionamento alla casa: lì la vita si svolge in giro e la casa non è altro che un posto dove dormire. Ci si sposta spesso, e per questo non è inusuale vedere pezzi di arredo abbandonati per strada.
Questo mi ha portato a riflettere sull’affezionamento e sul senso di appartenenza che si attribuisce agli oggetti, a chiedermi come mai alcuni siano ‘più importanti’ di altri. E mi ha ispirato a realizzare la Bushwick chair. Volevo realizzare qualcosa che rappresentasse ciò che si trovava in strada e dare una dimensione di affetto a questi oggetti abbandonati, usarne i materiali per trasformarli in qualcosa di bello e personale che valesse la pena portarsi appresso.
Per maggiori info Matteo Pellegrino